TAKESHI KITANO
Ovvero, la vita nel tempo sospeso.
Rispondendo a Pasolini, in un
"dialoghetto" sul cinema, Pierre Clementi definisce i film commerciali come
pillole di sonnifero, adatti per una società impegnata a digerire. Un paragone
che, per contrapposizione, mi piace associare alla produzione filmica di Kitano.
Opere in cui nessuna visione rilassata è ammessa. Che anche quando si incanalano
in un sentiero che ci sembra di riconoscere, guardano già da un'altra parte.
Mentre l'imprevisto ci coglie di sorpresa, anche dove le scene precedenti
ce lo annunciano. Come se non volessimo crederci. Realtà che irrompe con
l'immediatezza di una freccia. Economia e precisione zen. Un solo pugno,
un diretto nello stomaco, che sconquassa ogni tentativo di riassestamento in
fase digestiva. Dalla vita alla morte, dalla morte alla vita. Senza happy
end in attesa in fondo al film. Mentre nello scorrere del tempo, gli "obbligati
" percorsi dei personaggi in transito si chiudono, e la bellezza della
vita è appena sfiorata, mai contemplata troppo a lungo. Che sia
delicatezza, grazia d'un volto femminile, o, universo sconfinato d'un mare col
suo muover di onde sempre uguali e sempre diverse. O sogno di recupero, di
azzeramento del tempo e delle scelte d'una vita trascorsa nella violenza,
per ritrovare infine la purezza di un amore abbandonato. Di fatto, i protagonisti delle storie di Kitano
non sembrano sentirsi mai di fronte a delle vere chance. Piuttosto, si direbbe
che vogliano concedersi il lusso di una trasgressione. Un unico gesto. Non
liberatorio e neanche futile. Un semplice atto, d'amore e di liberalità,
capace di dare un avvio, di aprire una porta ad un proprio simile, per un
diverso percorso, mai per sé. E quasi sempre al prezzo più alto. Come nel caso
dello yakuza, stanco travet del crimine di "Boiling point "( '90)", o del primo
film girato negli USA, " Brothers" (2000). Ma anche del poliziotto giustiziere
disilluso di " Hana-bi - Fiori di fuoco (Leone d'oro a Venezia '97). Tutti ruoli
che il regista avoca a sé stesso, e che riveste sapientemente, rendendoli
indimenticabili. Personaggi diversamente violenti, che hanno abbracciato, come
naturali, morale e regole gerarchiche dei rispettivi ambienti in cui si sono
trovati, ottenendo rispetto e posizione sociale, ma che nel tempo, scontano
soprattutto stanchezza e disillusione. Teoricamente ad un bivio, tuttavia
bloccati. Chiusi nei limiti delle proprie esperienze di vita, che facciano una
strage, che si suicidino, o che semplicemente cerchino di procrastinare il più
possibile un grande dolore ad un bambino, come nel " L'estate di Kikujiro (
'99), finiranno comunque per sostenere tutto il peso del proprio mondo.
Di
qui, il Kitano maschera tragica, dalla comicità grottesca, tra le righe, con
appena un ghigno sul volto. Senso di impotenza e di rassegnazione per un destino
da portare a compimento. O per un Giappone violentemente e acriticamente sulla
via dei tempi moderni, che mentre si sbarazza di valori vecchi per altri più
nuovi, gelosamente salvaguarda ogni gerarchica organizzazione del passato e
rischia di consegnarsi alla ferocia d'una violenza che si fa diffusa, e perfino
gratuita. Tematica molto presente già dal primo film "Violent cop" ('89), e che
riappare con linguaggi che si richiamano al teatro tradizionale in "Dolls"
(2002) e ai maestri della storia del cinema giapponese in " Zatoichi" (Leone
d'Argento e Premio speciale per la regia, a Venezia 2003). Ma anche rabbia.
Impossibilità di aderire fino in fondo, pena il continuo sonno dei sensi.
Bisogno di dare una scossa, di spezzare il ritmo. E allora i tempi "morti", il
gioco, come momento unico, pausa di vita e spazio di libertà, in cui ci si può
anche divertire, stare in allegria, aver fortuna o fare nuovi incontri… le
persone imparano a conoscersi, l'amicizia si consolida o può nascere un amore,
un sentimento di solidarietà o di protezione. Insomma, un tempo sospeso quasi
magico. Sempre suscettibile di dilatazione, ma con scadenza. Forse, vita molto
più reale di quell'altra che incombe sui personaggi. "Sonatine" ('94) è un
film esemplare in proposito.
Kitano non è regista solo di
storie cupe, con personaggi violenti e, a loro modo, tragici eroi. Ma che ci
parli di malavita o polizia, di un bambino o di una coppia di innamorati
sordomuti, nei degradati quartieri di Tokyo o in altre città, che ci
impensierisca o ci faccia sorridere o anche ridere, i suoi protagonisti
finiranno sempre col trovarsi di fronte ad uno scontro tra la vita che
faticosamente conducono e un'altra vita, che vorrebbe almeno sognare di poter
vivere con passione, nella sua interezza… Ed ogni suo film, dal più crudo e
violento, al più poetico e rarefatto, sarà sempre giocato sull'equilibrio che
riuscirà ad ottenere tra elementi di pesantezza e leggerezza. E non sbaglierà
quasi mai un colpo. "Gatting Any?" (Minnâ-yatteruka! '94), sembrerebbe davvero
il meno riuscito ( come anche lo stesso regista ammette).Un paradossale film sul
cambiamento della società giapponese, tra consumismo, influenza dei media e
illusioni di libertà. Collage di sketchs, in cui si ride freddo, anche molto
interessante in alcuni punti, ma appesantito da ripetitività e parossismi
straboccanti. Risulta invece impresa ardua stabilire una qualsiasi graduatoria
tra i film di Kitano, ciascuno a suo modo, indimenticabile, che non sia
improntata al proprio gusto personale. Una filmografia, per ora, esigua, undici
titoli, che si può amare o meno, con opere che si possono preferire in luogo
di altre, ma tutte essenziali, senza sprechi o fatuità e, nessuna inutile. A
partire da Violent Cop (Sono otoko, kyobo ni tsuki. '89). Film d'esordio (Kitano,
scritturato come attore, assumerà anche la regia, in seguito alla rinuncia di
Kinji Fukasaku), in cui pur muovendosi nelle strettoie di un copione già
strutturato, di genere poliziesco, riuscirà ugualmente a fare un'opera inusuale
e forte. Una forza tratta non dall'esibizione della violenza quanto piuttosto
dallo svuotamento di tutto ciò che la rende azione spettacolare. E fa male. In
seguito, Kitano si riserverà sempre grande libertà nel girare i suoi film:
dall'improvvisazione sul set, al girare singolarmente scena per scena, ecc. E
già col suo secondo film, Boiling point - I nuovi gangster (3-4x jugatsu,
1990), scritto da lui stesso, Kitano sfodererà la maggior parte degli elementi
della sua poetica ed estetica: il mare, il gioco, l'ironia buffonesca, il
mettersi alla prova, la ripetizione, la violenza, la morte, la premonizione, la
forza del sentimento, il disagio fisico e mentale, il gesto d'avvio…
inquadrature vuote e spiazzanti, immagini somiglianti a quadri, una luce quasi
sempre offuscata, anche quando è chiara, sprazzi di bagliore e un tempo che si
dilata, finché non si chiude a picco. Un film con una storia che ruota intorno
ad un incontro; situazione in seguito ricorrente. In cui s'evidenzierà la
valenza stilistica della musica e che segna l'avvio di un duraturo sodalizio del
regista con il musicista
Joe Hisaishi. E a circa un anno di distanza,
infine, Kitano girerà "Il silenzio sul mare (Ano natsu, ichiban shizukana umi o
A Scene at Sea 1991). Film di poetica bellezza. E di impalpabile equilibrio. Al
quale l'appassionato e talentuoso Kitano, unico nel panorama cinematografico
giapponese, saprà far seguire ogni volta sempre nuovi traguardi.
Personaggio assolutamente
poliedrico, Takeshi Kitano è un artista totale. Uno sperimentatore che, come in
una sorta di work in progress, procede di esperienza in esperienza e si inventa
il domani. Nella vita come nell'arte. In un percorso che da un povero
quartiere di Tokyo, in cui è nato nel 47, lo porta sino ad essere un o dei più
amati show man della TV giapponese, col nome di Beat Takeshi. E' ideatore e
regista di svariati programmi televisivi ( parti del gioco cult "Takeshi's
Castle", le ha riproposte in Italia la Gialappa's Band in "Mai dire Banzai"),
scrittore di articoli ad ampio raggio, di saggi, di sceneggiature, nonché di
romanzi ( tradotti in italiano solo due, di cui "Ecco perché mi odiano" è
introvabile). Nell'autobiografico Asakusa Kid ('88 ) (Arnoldo
Mondadori Editore, 2002), Kitano dedica particolare spazio al periodo del suo
esordio teatrale, sotto la guida del capocomico Senzaburo Fukami, al Français,
locale di streap e cabaret nel quartiere Asakusa di Tokyo. "Kid Return" (Kidzu
ritan, '96), è il film che con più evidenza s'ispira a quella fondamentale
palestra teatrale e di vita. Ed è anche la prima opera che il regista tornerà
a girare dopo il '94; quando in seguito ad un grave incidente motociclistico,
con paralisi del lato destro del volto, affronterà un lungo periodo di
convalescenza, in cui inizierà a dipingere ( suoi sono i dipinti in "Hana-Bi").
Kitano, è anche poeta ( oltre 50 volumi
pubblicati), critico e produttore cinematografico… Una ricchezza creativa
rispetto alla quale in Italia esistono ancora scarse possibilità di
approfondimento. Anche la sua cinematografia, che nei festival riscuote
interesse e apprezzamenti sempre crescenti, ha limitatissima diffusione. La
rassegna organizzata da Sentieri Selvaggi, che il Detour ci ha proposto, oltre
alla filmografia completa del regista, consentiva anche di apprezzare le
notevoli doti del Kitano attore, in Furyo (Merry Christmas, Mr. Lawrence, 1983),
e Tabù,('99), entrambi di Nagisa Oshima, o Gonin ( '95) di Takashi Ishij, o
ancora, un Kitano dietro le quinte, in Make of di l'estate di Kikujiro ('99).
Silvana Matozza
Articolo pubblicato sulla rivista cultura e spettacolo Vespertilla
22.05.05