UNA LEZIONE DI CINEMA, DI STORIA, DI VITA
Ricordando FLORESTANO VANCINI
Quando sentii la notizia in
TV, mi sembrò che non potesse essere vero, mi faceva male. Immediatamente mi
riportava indietro, a meno di un anno fa, a quella seconda e ultima volta in cui
lo rividi, quando volevo andare a salutarlo e non lo feci. Rimandavo ad ancora
un’altra volta, un’altra occasione. Sapevo dei suoi recenti problemi di salute,
certo, fisicamente il suo essere affaticato traspariva, ma ritrovavo inalterati
tutti quei tratti che nella mia breve esperienza di sua allieva, in un corso di
sceneggiatura di molti anni fa, avevo imparato a conoscere. La riservatezza
nell’apertura, il rispetto, il saper ascoltare, l’estrema lucidità di un
ragionamento e di un narrare. La lunga notte del ‘43, era il film (
insieme agli altri di Maselli, Cavani, Allocca e Magni ), che si proiettava in
quella serata al Teatro Vittoria, dedicata a “Resistenza e partecipazione
popolare” (curata dall’ANPI per la rassegna “Cinema, storia e…vizi, sogni virtù
dell’Italia repubblicana”). Nell’incontro col pubblico, sul palco insieme a
Magni (Nemici d’infanzia, 1995), moderatore Gianni Bisiach, Vancini
ripercorse la travagliata ma anche fortunata genesi di questo suo primo
lungometraggio sul fascismo di Salò, in cui per la prima volta, in
controtendenza, il conflitto bellico veniva interpretato anche come guerra
civile, togliendo i fascisti dal ruolo secondario in cui il cinema del periodo
li mostrava. Un racconto appassionato in cui tra luoghi, del ferrarese come di
Roma, fatti e personali esperienze prendeva corpo e vita un’epoca. Dalle
traversie legate alla produzione (la ricerca del secondo produttore dopo il
dissenso con Lombardi; far accettare il bonario Peppone-Gino Cervi nel ruolo
dell’inviso gerarca emergente; far preferire il giovane Enrico Maria Salerno ad
un nome di fama, ecc.), fino alla sensazione del crollo dell’intero progetto,
quando la commissione interna alla BNL (caso assai raro), rifiutò di finanziare
il film per mancanza dei cinque requisiti minimi richiesti. E’ anche uno dei
momenti più critici del dopoguerra, il governo Tambroni, gli scontri nelle
piazze, i nuovi equilibri politici. La sua casa di produzione comunque continua
ad appoggiarlo, finché il 18.2.1960 (l’unica data d’inizio dei suoi film che
Vancini ricordava sempre!) si batterà il primo ciak.
Un film che nasce in primo luogo dalla sua memoria di ragazzo, da un evento che gli cambiò la vita: un primo giorno di scuola, il 15 novembre del ’43, quando si trovò di fronte quegli 11 corpi fucilati, primo esempio di rappresaglia fascista. Un’opera legata ai fatti, ai luoghi ma non rigorosamente storica, frutto di invenzione, con varianti nella trasposizione dal racconto di Bassani, Una notte del 43; il personaggio del farmacista che non esisteva, la positività nel finale della figura femminile… Scritto insieme a Pasolini e De Concini, premio Opera Prima, a Venezia, e Nastro d’argento per E. M. Salerno, e che oggi figura nell’elenco dei cento film patrimonio del cinema italiano da salvare e diffondere. Nel tempo avevo imparato a riconoscere anche nelle sue opere (troppo poco diffuse e che ho visto solo parzialmente) quel modo appassionato, sempre fedele a sé stesso, di affrontare la vita e il lavoro. Con un’intima coerenza che ancora una volta mi /ci aveva regalato una lezione di cinema, di storia e di vita.
Silvana Matozza
Articolo e photo pubblicati sulla rivista di cultura e spettacolo Vespertilla, anno V n° 4 - Settembre/Ottobre 2008