Impressioni Jazz " The two horses of Gengis Khan" (2009) di Byambasuren Davaa Recensione
DALLA CITTA’ ALLA PRATERIA, INSEGUENDO L’ANIMA NOMADE
THE TWO HORSES OF GENGIS KHAN
Un’affascinante viaggio in terra mongola, come una grande metafora, inseguendo le orme delle antiche origini della sua musica popolare, dove la realtà confina col mito. A partire da uno strumento simbolo, un antico morin khuur, (il violino mongolo), col manico a testa di cavallo ora spezzato in due, che una nonna ha preservato dalla distruzione durante la rivoluzione cinese e consegnato alla propria nipote, nella speranza che possa farlo rivivere. Con la sua storia, impressa sul suo legno, il testo quasi illeggibile e quasi da tutti dimenticato, dell’antica canzone “Chingisiyn hoyor zagal” (”I due cavalli di Gengis Khan”), leggenda sui valori nomadi di fierezza, unità, libertà, lealtà, generosità, tolleranza ecc... Un lungo percorso di ricerca, verso la ricostruzione del violino e della canzone, che Urna Chahar Tugchi, nota cantante della Mongolia Interna, intraprenderà in omaggio alla nonna amata, e col personale desiderio di cantare a sua volta il prezioso brano. A Ulaan Baathar, capitale della giovane repubblica mongola, e poi verso i luoghi della storia e del mito di Gengis Khan. Nel Kentii, regione di nascita del condottiero, zone sacre, intrise di religiosità, dove forte è ancora la presenza della tradizione, Burchan o Chaldun, Karakorum, l’antica capitale dell’impero mongolo. Tra massicci rocciosi, praterie ventose, gelo e robusti cavalli, shamani, costumi, bevande e musica folk, dove conoscerà (e ci farà conoscere) un popolo ospitale che l’accoglierà e l’aiuterà, di cui condividerà riti e storie di vita… Di una comunità nomade immiserita, su una terra sempre più infeconda, e sempre inseguita dai cascami tossici di una modernità che non lascia rifugio. Di un popolo spirituale e rispettoso della natura, che non ha costruito palazzi, ville o grattacieli, che delle sue gher può far presto un involucro e traslocare, senza colpo ferire. L’esperto artigiano Hicheengui Sambuu, che abbraccia l’albero prima di farne legno per riparare il violino in qualche modo ricorda il monologo con la tigre in Dersu Uzala, di Kurosawa. Quel senso di natura e respiro che all’opposto, nell’isolamento, soffocamento urbano e individuale, i film dello svedese Andersson disperatamente esprimono come mancanza… Non tutto per Urna andrà come sperato, costretta a confrontarsi con i cambiamenti epocali dei passati processi di integrazione ( industrializzazione, sedentarizzazione, imposizione dell’alfabeto cirillico…) e del contraddittorio sviluppo economico-politico in corso; ma il suo cammino nel paese comunque non si fermerà. Perché dimenticare il passato in favore del nuovo? Piccola, grande domanda di questa ambasciatrice del popolo mongolo, che spicca il volo, in una scena indimenticabile, quando il canto si libra oltre le ventose vette levigate dal tempo, lirico lamento sgorgante direttamente dall’anima di un popolo. Ma anche comunanza, abbraccio ideale di una antico sentire nomade, sonorità che travalicano i confini territoriali e rendono più vicini i cugini indiani d’america. Popoli da cui c’è ancora da imparare.
Presentato a Locarno 2009, è il terzo lungometraggio, scritto e diretto dalla brava regista mongola Byambasuren Davaa. Un film documentario coraggioso, di grande fascino e forza espressiva, in cui ciascuno interpreta sé stesso, e liberamente ispirato a La storia segreta dei Mongoli.
Silvana Matozza
Articolo pubblicato sulla rivista di cultura e spettacolo Vespertilla, anno VI n° 6 - Novembre/Dicembre 2009