Impressioni Jazz " War and Love in Kabul " (2009) di Helga Reidemeister Recensione
LA RICERCA DELLA FELICITA’, A KABUL
WAR AND LOVE IN KABUL
Potrebbe anche sembrare un paradosso che in tempi di guerra ci si preoccupi di felicità, se non fosse che da trent’anni in Afghanistan si vede solo guerra. Mentre la vita, per chi è ancora vivo, continua ad andare avanti. Anche per Hossein, il ragazzo paraplegico, che da quando è nato, come dirà, non ha conosciuto altro. Che arruolatosi per soldi dalla parte dei talebani, ferito e abbandonato dai suoi al proprio destino, si ritrova oggi completamente dipendente dai familiari, mentre tenacemente si sforza di riconquistare l’uso delle gambe. E che spererebbe, infine di poter vivere, con la ritrovata Shaima; l’innamorata di sempre, che non vuole più lasciarlo, pena il suicidio, di entrambi. Storia di amanti divisi, un classico delle letterature mondiali, che anche nell’Afganistan della vita reale minaccia il previsto epilogo crudele. Perché l’invalido di guerra Hossein, è disoccupato e povero, perciò indesiderabile per la famiglia di Shaima, come marito. O perché la madre di Hossein se avesse i soldi preferirebbe comprargli una moglie della propria etnia… Ma soprattutto per la condizione legale di vita sospesa in cui Shaima, insieme alla propria figlia di cinque anni, suo malgrado si trova a vivere. Venduta in sposa come quarta moglie ad un uomo di 40 anni più grande di lei e che non ha più completato il pagamento della dote; ricondotta dal padre nella propria casa d’origine, insieme alla bambina, in attesa di un divorzio di cui non c’è certezza. Mentre le sue visite, da tollerata intrusa, rischiano di esporre la famiglia pashtun di Hossein a serio pericolo di vendetta. Tra un fuori ostile e un interno a fare da contraltare, in cui è la famiglia, da sola, tra solidarietà, conflitti e miseria, a sobbarcarsi il peso di un argine fin troppo aggredito. Un punto di vista che il documentario di Helga Reidemeister farà proprio nello svelarci questa storia, prevalentemente relegata tra le mura di casa e il cortile, dove Hossein si spinge per i suoi esercizi quotidiani di riabilitazione. La guerra non si vede, ma è continuamente evocata. Dall’invalidità del co-protagonista, in primis, ma anche dal territorio devastato, dall’aggressività di un combattimento tra galli, o da una sala ospedaliera in cui Hossein viene accompagnato per i suoi controlli periodici; occasione quest’ultima, anche per noi dall’Italia, di vedere un’altra faccia della guerra, l’altra guerra che ogni giorno si combatte negli ospedali (qui, è il centro di riabilitazione del Comitato internazionale della Croce Rossa, gestito da Alberto Cairo).
Un
documentario che, con onestà, sa restituire il senso del viaggio, della scoperta
nell’incontro con una realtà tanto diversa quanto sconosciuta, attraverso
pensieri, paure e aspirazioni di chi vive tra quelle mura, ponendo lo
spettatore in media res, e chiedendo tempo, per guardare, per ascoltare e per
capire. Tra fissità d’immagine e i soli suoni dell’ambiente, in cui silenzio e
parole hanno egual peso, mentre i gesti finiscono per farsi spontanei e i volti
rivelatori dei sentimenti che li animano. Smuovendo empatia, senza implicare di
per sé simpatia. Merito di un’abilità registica che nell’inusuale quanto
difficile set, sembra naturalmente favorire un clima d’apertura; memorabile e
illuminante il passaggio dal tono confidenziale sottovoce tra donne, al
repentino ammutolimento per l’arrivo del capofamiglia durante l’intervista. E
tra una madre che nella foga del parlare trascura il velo, figlie che si
presentano a volto scoperto, ecc., perderà qualche velo anche quell’immaginario
europeo di pregiudizio costruito sulla diversità. In un graduale avvicendamento
nella conoscenza dei personaggi che condurrà al fulcro stesso della storia; che
dai due amanti e il tabù violato, scivola ineludibilmente su Shaima, elegante,
che fuma e dichiara comunque la propria indisponibilità a tornare indietro. Tra
colori solidi e accesi che suggeriscono un qualche cammino di emancipazione
interrotto e coni d’ombra che si allungano sul futuro (fotografia di Lars
Barthel), finendo con l’investire, forse più inquietantemente, anche la
piccola, che col burqa gioca e/o familiarizza. Storia di un privato, fatto di
essenzialità, più allusivo che esaustivo, che drammaticamente delinea contorni
da storia collettiva. Dove, anche nel rispetto delle regole, povertà e potere
del denaro definiscono comunque lo spazio di libertà di tutti, e ciascuno appare
inadeguato nei propri abiti: di padre che aspira alla felicità per i propri
figli, e che dovrà dare in sposa le figlie femmine per disporre dei soldi per il
matrimonio dei maschi; di figlie alle quali, per essere felici, non rimane che
aspettarsi in marito una brava persona che non le maltratti… Perché qui non è di
una felicità da effe maiuscola che si sta trattando, bensì di un concetto molto
più relativo e variabile, a seconda delle coordinate geografiche in cui capiti
di vivere.
Un documentario che la regista ha girato nel 2006, nel suo ritorno in un Afghanistan che sembra travagliarle il cuore. Multipremiato, che anche Incontri con il cinema asiatico 11 premia (ex-aequo). E una storia reale che, secondo le attuali informazioni presenti in rete, registra oggi uno sviluppo, almeno nel segno del diritto. E’ la stessa Reidemeister, nell’occasione di una premiazione, con una lettera indirizzata ad un festival, ad informare che Shaima ha ottenuto il divorzio.
Silvana Matozza, Guido Bonacci
20.12.2010